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Le Molinette nel cuore
La borgata di Calcaferro è una preziosa custodia della storica
antropizzazione avvenuta nel territorio di Stazzema, specificatamente
per le attività degli ex Polverifici Riuniti dell’Alta Versilia di E.
Bertellotti & Deri F.lli Pocai e le escavazioni minerarie effettuate
nelle innumerevoli gallerie aperte su entrambi versanti del Canale della
Radice. Oltrepassata la piccola galleria scavata nella roccia, soglia
naturale che introduce nel tempo che fu, si entra nel silenzio dell’area
delle Molinette. Splendido e immerso nell’ombra sempiterna appare il
secolare flettere di pietra del ponticello medievale di Zinebra. Parlano
gli occhi degli astanti, che restano muti ad ammirarlo. La memoria
d’altri tempi ne viene risvegliata. Un’aura di fiume fruscia tra le
piante di bosso radicatesi negli interstizi delle pietre del piccolo
ponte. Nello scavo vivo del monte l’acqua è schiuma di latte appena
munto. Rumoreggia sotto l’arco di pietra. Regna il silenzio nella minuta
valle della Radice; è così profondo da apparire una punizione. Dal fiume
par giungere l’eco di voci lontane di taglialegna, carbonari, minatori,
tremori di tramogge e di pale di mulini, di fischi dei carrelli delle
teleferiche che sorvolavano un tempo l’aria rugginosa del posto. Dalle
pietre tufacee delle testate d’angolo dei manufatti il segno
inequivocabile di essere nel cuore di passi antichi, la certezza che il
tempo qui fu ed è storia. Il ponticello è testimonianza lontana di un
oprare che riaffiora sorprendentemente vicino. Dal giaciglio del corredo
genetico, la sinapsi della cellula trasmette la scossa emozionale alla
memoria che riemerge dal sonno. Sovviene un lungo il brivido nel
constatare l’abbandono in cui è stata lasciata un’industriosità umana
nata su un declivio ardito, nascosto nel fitto dei castagneti, che solo
il fumo dei metati riusciva un tempo ad individuare l’isolata fessura
del Canale della Radice. Di quest’antropizzazione è stata quasi fatta
perdere ogni traccia. Un disegno cieco di depauperazione. Il
disfacimento come prova che nulla nel luogo era stato creato. Invece la
testimonianza è tuttora presente: sofferta, ma resiste. C’è ancora del
margine per soddisfare chi vuole tornare a riscoprire l’acqua come
rivelazione della vita, a toccare con mano la radice del fiume che la
roccia partorisce. Salire alla sorgente delle Molinette supera il
concetto di un percorso nella natura alla scoperta di un sito
archeo-minerario. Più che mai salirvi adesso è rendere omaggio al
conflitto locale che ha impedito che l’acqua divenisse lucro privato. È
il messaggio contro la sua mercificazione. L’area delle Molinette è
divenuta luogo simbolico per riaffermare che l’acqua è un bene comune,
che non può essere privatizzata. L’indubbia bellezza selvaggia del posto
rivaleggia con le rovine industriali della polveriera. Si entra in un
gioco di rimandi, in cui un passato di lavoro è convissuto con la
natura. È latente quel senso di sfida negli intrecciarsi dei manufatti,
seguire quel filo d’Arianna che introduce dentro un’epoca. C’è ancora
abbastanza memoria tra le mura squarciate e sotto la disfatta dei tetti.
Forte è l’emozione che genera la visione di un patrimonio antropico di
una storica polveriera in via di distruzione. La fine di essa iniziò con
la deflagrazione avvenuta il 27 dicembre 1938. Morirono il Narcisio, la
Cesira e la Sara. Anche allora morti bianche sul lavoro. Un boato
tremendo fece tremare la valle del Torrente Mulina. Con la disgrazia, la
storia della fabbrica di esplodenti iniziata quasi un secolo e mezzo
prima volse alla fine. Salire alle Molinette è constatare la malora cui
è stato destinato uno scrigno che conservava un lascito considerevole di
edifici e di macchinari di archeologia industriale: un passato di pane
quotidiano e di manodopera femminile. Per la donna di queste severe e
anguste vallate animate dall’acqua, i miccifici, i polverifici e le
miniere hanno significato un’opportunità di impiego, seppure duro,
pericoloso e sacrificale, per incrementare l’economia famigliare e per
non restare rassegnate a sferruzzare sulle soglie delle case, attendendo
all’imbrunire il rincasare dal lavoro dei mariti e dei figli. I
miccifici dislocati nel fondovalle della borgata di Culerchio, i casotti
dei polverifici diseminati in quell’ombra fitta e avvolgente che
preclude alla luce di penetrarvi anche quando è allo zenit, le stesse
miniere, con le mense per i minatori e la frantumazione del materiale da
caricare sui carrelli trasportatori, furono opportunità di occupazione
alternativa al marmo. Per la donna la possibilità di staccarsi dallo
stereotipo che la voleva relegata alle faccende domestiche e al governar
le bestie, la possibilità di essere meno condizionata e subordinata
all’uomo nell’economia famigliare. Il sentiero che sale il versante
sinistro del Canale della Radice porta ad incontrare queste
considerazioni, mentre l’acqua che sgorga limpida a pura dalla sorgente
nord ancora si nega al rendez-vous tra l’uomo e l’elemento della
vita. Si sente, in alto, nel de profundis che rischia di franare
addosso, la sua sinfonia misurata tra le felci, gli alberi contornati
dai versi degli uccelli. Lassù, a 380 metri sul livello medio del mare,
la roccia libera il getto d’acqua purissima delle Molinette
nell’epifania di una natura che consente di intravedere, tra i castagni
saliti a cercare la luce in quel cielo ristretto nell’interfaccia
angusto dei versanti, squarci delle montagne velate da una grata di
verde. Da che remoto viscere di monte, da quale purificatore rene
sotterraneo l'acqua prorompa non è dato di sapere, ma alla scaturigine
si avverte il flusso della radice della vita, se ne comprende la sua
preziosità che ne fa bene insostituibile e irrinunciabile. Quell’acqua
fino a poco più di mezzo secolo addietro era anche forza movente di
braccia e leve di ferro, di ruote, di congegni in cui l’antitesi del
legno e del ferro trovò la formidabile ingegnosità di un assemblaggio
che oggi è assunto a simbolo di un mondo sparito. Di esso è pressoché
impossibile individuare a Stazzema un altrove di pari ricchezza
testimoniale e con una così elevata capacità di sintesi per dimostrare
cosa veramente sia l’archeologia industriale: il comune divenire
dell’uomo e della tecnica. Dell’acqua se ne segue il docile e preciso
suo fluire guidato a riversarsi nelle buchette distribuite lungo
l’ingegnoso reticolo idraulico che serviva la fabbrica. Una
canalizzazione mirabilmente congegnata dall’umana creazione, su un
terreno difficile da assoggettare per la conduzione idraulica dell’acqua
utilizzata come forza motrice per un insediamento industriale.
Tracimante dalle canalizzazioni sverzate dall’incuria, l’acqua si
ascolta scrosciare in basso, in quel suo oggi scomposto riversarsi e
disperdersi per l’acclive terreno, alla ricongiunzione con lo scorrere
del canale che va al mare. Ogni sorgente è incontro di vita, ma alle
Molinette la percezione si amplifica. Il luogo introduce il concetto del
lavoro, dello sviluppo, del miglioramento dell’esistenza che per un
segmento di tempo è stato possibile svilupparvi prima che l’oblio si
riprendesse tale ingegno. Nella visita al cuore segreto di Calcaferro si
conclama dunque l’incredibile dimenticanza culturale avvenuta. È una
lama conficcata nel petto quel consenso all’abbandono: così efficace nel
risultato, da sembrare impartito da un despota. Un’abiura lasciata
perpetrare fino al limite della rastremazione della custodia di un
passato di lavoro e di vita di uomini e donne, non solo di miniere, di
fabbriche di esplosivi, di miccia, di polvere da caccia. Nel groviglio
di una vegetazione degenerata fra le strutture della fabbrica di
esplodenti s’intravede ancora un barlume di speranza per salvare quanto
ancora rimane. L’apocalisse dei rovi che si alzano come baldorie a
lambire le cime degli alberi e a nascondere ogni cosa, le edere che alla
stregua di boa constrictor avvinghiano gli enormi castagni per
stramazzarli in ogni dove della polveriera e l’infestazione arborea che
ha devastato l’ingegnoso manufatto di idraulica con cui dal fiotto
purissimo della roccia s’incanalava l’acqua a movimentare le enormi
ruote dei mulini e a trasmettere il moto per mezzo di trasmissioni
meccaniche al funzionamento dei macchinari dell’insediamento industriale
non deve rappresentare la presa d’atto di un disfacimento irreversibile,
il rendersi conto senza fare niente. Il rischio è che quell’acqua
divenga merce e cessi di essere la radice del fiume e della vita. Salire
alle Molinette è allontanare questo spettro latente e non vinto.
Giuseppe Vezzoni
(Stazzema)
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La sorgente delle
Molinette
Il ponticello di Zinebra
Opifici del Canale della Radice
Interno di un
opificio
La miniera
dell'acquamarina
antico
ingresso di miniera del ferro
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Per non tornare a vuoto sui propri passi
Una
galleria scavata nella roccia è la porta al sito delle Molinette.
Entrati, colpisce l'improvviso schiudersi del rumore d'acqua che scorre,
lo scrosciar continuo del torrente di montagna... E ci si chiede dove
vada a finire, che prima non lo sentivamo. Si sale per un breve tratto
di strada asfaltata, ed eccoci immersi nel passato; curioso, che ci si
debba voltare indietro, lo sguardo in alto, per trovar tracce di
presente (qualche casa abitata su per il versante destro del colle). Il
passato che ci attende non è dunque lontano, né remoto nel tempo,
giacché si parla di una realtà sopravvissuta fin oltre la seconda guerra
mondiale. Un succedersi di ruderi di edifici, pale di mulino
scheletrite, botti e svariati marchingegni. Ad unirli, una trama di
ingranaggi in un ordito di canalizzazioni. Perché linfa vitale di
quest'area
è l'acqua. Unita all'ingegno umano, è lei l'ingrediente principale di
questo contesto di archeologia industriale e natura insieme. È lei che
ha potuto alimentare le attività che qui si svolgevano, lei che ne ha
involontariamente ridotto le tracce nell'alluvione di pochi anni or
sono, spazzando via ponti e brandelli di edifici; lei che nutre le felci
e i rampicanti che infestano i muri di pietra o cemento delle
costruzioni nell'umore che trasuda dalle pareti. È lei la sorgente
contesa. È lei che quando aumenta il suo scorrere dirottando entro una
miniera di ferro, una ferita nella terra, si tinge di rosso. E non è un
caso, forse, che anche lei stia scemando, linfa di una vita che va
scomparendo; come ormai accade in molte parti del mondo, dove diminuisce
l'acqua che scorre, ed aumenta quella che giace. Svaniscono le
testimonianze di un passato che è storia e patrimonio, si perde la
memoria, ed intanto cala pure la portata di queste sorgenti. L'antico
sito delle Molinette è un polverificio ed un miccificio che è andato in
fumo, per così dire; ma è ancora qualcosa da salvare, e c'è chi l'ha
capito. Eppur non basta; non bastano gli animi intraprendenti che per
questa zona provano affetto e combattono affinché riemerga dai rovi,
prima che l'ultimo mulino scompaia, e non si possa nemmeno più dire:
Quant'acqua è passata sotto questi mulini! Ci sono sentieri da riportare
alla luce, e non è difficile immaginarsi un bel percorso ad anello che
faccia tappa anche alle miniere di ferro sparse qua e là; ci sono
macchinari da salvaguardare, restaurare, alcuni unici, ultimi esemplari
in zona; c'è un'opera di ingegneria idraulica geniale quanto gentile
nella sua potenza; c'è un fascino innegabile a cui non si può rinunciare
per incuria o indifferenza. E così invito i curiosi ad andare, magari
accompagnati dai pionieri di questa riscoperta, ma invito anche a non
restare soltanto a bocca aperta, né a muoverla per dire “ma la
comunità europea...ma i fondi qua...i fondi là...ma non si potrebbe
chiedere...”. Perché i soldi sono necessari soprattutto a chi non si
vuol sporcar le mani. Se veramente ci tenete, rimboccatevi le maniche!,
armati di sega, falcetto e quant'altro; e tutti insieme, volta dopo
volta, potremo fare una passeggiata più lunga...più lunga...fino a poter
ritrovare la galleria scavata nella roccia senza esser mai tornati sui
propri passi.
Giacomo Mencarini (Viareggio)
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